Maria Vittoria, una giovane farmacista sansalvese nel focolaio milanese
SAN SALVO. Sono tanti i giovani sansalvesi che dopo il decreto governativo che poneva tutta la nazione in zona rossa, con l’impossibilità agli spostamenti, hanno deciso di non scappare dal nord, per salvaguardare la propria famiglia, per ottemperare ai propri doveri. Uno di questi giovani è Maria Vittoria Di Croce che ci ha raccontato la sua di storia, partendo dalla quotidianità della sua professione, una professione che la pone in prima linea quale farmacista in questa emergenza, in una delle città che è al centro del contagio.
“C’è silenzio. Le strade sono ferme, le auto vuote; le case vive e in penombra, spiragli di luce si snodano tra le persiane ricordando l’esordio della prima domenica di primavera.
Non è facile evadere, né per chi non corre più, né per chi è assorbito dalla corsa all’emergenza.
Sono una giovane farmacista abruzzese e da metà gennaio mi sono trasferita a Milano per frequentare un master universitario. Nell’attesa che cominciassero le lezioni, ho aperto la partita iva e ho iniziato a lavorare in diverse farmacie da libero professionista.
Incredibile la città, sempre in fermento, mai banale, travolta costantemente da un dinamico turbinio di iniziative e opportunità. E poi all’improvviso il collasso.
Tanta incertezza, tanta paura. Tanto caos. Le restrizioni si fanno sempre più severe, gli uffici si svuotano progressivamente, così pure la città. Chiudono i bar, i ristoranti, gli esercizi commerciali. Alcuni studi medici. In molti non hanno più ragioni per restare, l’allarmismo divaga tra stazioni e treni in fuga verso casa. Anche io sento il grande desiderio di tornare.
Ma le farmacie sono sempre più affollate, il lavoro è intenso e straziante. Il telefono continua a squillare, dal bancone la coda sembra non avere fine. Richieste su richieste, tutte tristemente uguali. Per la prima volta non mi sono sentita libera di assecondare il mio desiderio.
Al di là dell’insensatezza della fuga, che avrebbe ostacolato un qualsiasi tentativo di contenimento del contagio, il rientro da una zona rossa mi avrebbe precluso la possibilità di prestare servizio in farmacia.
Tale occasione mi ha dato modo di riflettere profondamente sul valore della mia figura professionale: il mio piccolo contributo deve continuare ad essere, se non fondamentale, per lo meno utile. Da qui la scelta di restare. Di attraversare ogni mattina una città deserta per esercitare la mia professione, per far fronte alle esigenze di salute, ma anche alle interminabili lamentele. Per ripetere ogni dieci minuti che sono esaurite le mascherine o i gel igienizzanti mani, nonostante gli innumerevoli cartelli. Far capire a tutti che ci siamo, ora più che mai, benchè uscire di casa ogni mattina sapendo di esporsi quotidianamente al rischio del contagio non sia semplice. E non solo… La sera sono tutti a casa, tutto è chiuso e non c’è niente in giro. Niente e nessuno. Ma le farmacie sono ancora aperte, esposte a rischi che esulano dall’emergenza in corso.
Erano circa le 6 di sera, ero intenta a cospargere di alcol tutte le superfici esistenti, quando ho visto due uomini incappucciati e armati di coltelli piombare improvvisamente davanti l’ingresso della farmacia. Avevano guanti e mascherine, come tutti, ma erano gli unici rimasti in circolazione… hanno tentato di aprire con forza la porta automatica che io avevo fortunatamente già bloccato vista la desolazione circostante. Fallendo nel loro intento, sono scappati via. Questa è solo una piccola parentesi conclusasi nel migliore dei modi che passa in secondo piano rapportata ai molteplici rischi di cui tutti abbiamo preso coscienza dato l’allarme del momento. Ma purtroppo è una realtà che contribuisce a soffocare le farmacie e i suoi professionisti in questo periodo di forte stress e pressione sanitaria.
Mai come in questo momento ho compreso il ruolo cruciale della farmacia come primo presidio socio sanitario sul territorio in termini di accessibilità, supporto e informazione. Inutile dire ‘Restate a casa!’, in farmacia si sentono tutti un po’ più immuni: hanno imparato che il paziente è al centro, che il farmacista li ascolta. Che l’empatia va oltre i filtri delle ffp2. Ogni volta che sono costretta a ripetere: ‘Dovete stare dietro la linea gialla!’, mi rendo conto quanto sia un difficile controsenso ripristinare quella distanza che col tempo abbiamo faticosamente annullato. Quanto sia impegnativo ogni giorno far sorridere gli occhi e rassicurare con uno sguardo, avendo il sorriso soffocato dalle mascherine.
Qualche settimana fa ho visto spuntar fuori delle grandi barriere in plexiglass sui banconi. Una dopo l’altra, tutte le farmacie si sono attrezzate in tal senso. È indispensabile, viste le circostanze del momento. Per un attimo la mia mente ha riportato a galla un particolare risalente a un paio di anni fa, ormai seppellito tra i dettagli dei grandi ricordi.
Ero in Kenya, in una farmacia alla periferia di Nairobi, quasi al termine della mia attività di volontariato. Non capivo come mai davanti al personale ci fossero delle barriere in plastica trasparenti, troppo mobili e scarsamente stabili per avere una valenza antirapina. ‘’…for the illnesses’’ cercava di spiegarmi un collega. Continuavo a non capire. Beh, mai avrei pensato che la risposta alla mia domanda sarebbe arrivata un paio di anni dopo nelle farmacie italiane.
È da più di un mese che viviamo in una bolla, lavorando in apnea. Il mio più grande rammarico è quello di continuare a combattere la mia battaglia lontana da casa. Il mio pensiero vola sempre verso i miei familiari che ogni giorno scendono in campo come me, senza poter contare sul mio aiuto. Ogni sera, ricevo la telefonata di mio nonno che, rintanato nel suo studio in farmacia, si ostina a ripetermi: “E’ solo il mese di marzo, ma #andràtuttobene…”.
di Maria Vittoria Di Croce