Sabrina Monacelli racconta la nascita dell’Unitalsi a San Salvo
“Unitalsi acqua che zampilla”. La storia dell’Unitalsi ha un legame particolare con il Santuario Mariano di Lourdes che, ancora dopo più di cento anni dalla fondazione dell’Associazione, è la meta privilegiata dei propri pellegrinaggi.
Era il 1903 quando il fondatore, Giovanni Battista Tomassi, figlio dell’amministratore dei Principi Barberini, partecipò al suo primo pellegrinaggio. Era un ragazzo poco più che ventenne, affetto da una grave forma di artrite deformante irreversibile che lo costringeva in carrozzella da quasi dieci anni; molto sofferente nel corpo e nello spirito per la sua ribellione a Dio e alla Chiesa. Avendo saputo dell’organizzazione di un pellegrinaggio a Lourdes, Tomassi chiese di parteciparvi con una precisa intenzione: giungere dinanzi la grotta di Massabielle e, qualora non avesse ottenuto la guarigione, togliersi la vita con un gesto clamoroso.
Ma ciò, fortunatamente, non accadde. Davanti alla Grotta dove l’Immacolata era apparsa a Santa Bernadette, venne colpito dalla presenza dei volontari e dal loro amorevole servizio vedendo quanto la condivisione dei volontari regalava conforto, speranza e serenità ai sofferenti. (Dal sito www.unitalsi.it)
Negli ultimi trenta anni questa storia ha contagiato anche quella di San Salvo e molte sono le persone che si sono rese disponibili per offrire un po’ del proprio tempo a chi si trovava in una situazione di bisogno fisico e a lasciare che questi “ultimi” cambiassero il loro modo di concepire la vita. Sabrina Monacelli racconta come l’Unitalsi è arrivata anche a San Salvo.
Quando e come è arrivata l’Unitalsi a San Salvo?
Io ero poco più che diciottenne e frequentavo la parrocchia di San Giuseppe. Un giorno due mie amiche Carmela Bellini e Nada Izzotti mi invitarono a un pellegrinaggio dell’Unitalsi che si svolgeva a Casalbordino. Restai subito affascinata dalle loro divise col veletto in testa, così candide e che aveva quel non so che di angelico. Trascorsi l’intera giornata con una non vedente perché era il caso più semplice che mi potessero affidare. Nel frattempo che stavo con lei osservavo anche tutti gli altri e riuscivo a percepire l’amore con cui questi volontari interagivano con chi aveva delle disabilità anche gravi. Anche se ho un cugino con una disabilità importante, fino ad allora non mi ero mai accorta di cosa potesse significare per qualcuno aver bisogno di un altro per compiere anche i gesti quotidiani più intimi. Nonostante la mia giovane età, cambiai totalmente il mio modo di concepire la vita. È come se qualcuno mi avesse aperto gli occhi su un mondo che non conoscevo. Successivamente partecipai anche ad altri incontri e più vi partecipavo e più restavo affascinata dal mondo dell’Unitalsi. Sia io che Carmela e Nada vivevamo molto la vita di parrocchia e spesso ci ritrovavamo a vivere tanti momenti di convivialità e in queste occasioni spesso usciva il discorso su questa realtà. Senza saperlo avevamo contagiato non solo molti nostri amici e sorelle ma anche il parroco don Raimondo Artese che si cominciò a incuriosire e ci accompagnò a Lourdes. In seguito, don Raimondo stesso cominciò a proporre questo percorso santo anche ad altri parrocchiani.
La prima volta che sei andata a Lourdes cosa ti ha colpito?
Quella processione immensa di carrozzelle, barelle e volontari dell’Unitalsi in divisa! Avevo la piena sensazione che quelle persone non erano lì per chiedere un miracolo ma per altro e riuscivano a trasmettermi un incredibile e inspiegabile sensazione di pace e serenità perché erano come delle persone che davano la percezione di avere già tutto. Uno dei momenti più toccanti di quel viaggio è stato quando ho visto medici e tutto il personale sanitario inginocchiarsi al passaggio del Santissimo, quasi a testimoniare la loro impotenza e arrendevolezza di fronte alla vita.
Come l’Unitalsi ha cambiato il tuo modo di vedere chi ha una disabilità?
In uno dei miei primi viaggi a Lourdes, uno di quelli in cui si andava ancora con il “treno bianco”, ebbi l’occasione di dormire insieme a Barbara, una ragazza di San Salvo con una grave disabilità. Quella fu la prima esperienza in cui mi accorsi di come tra me e lei non ci fosse nessunissima differenza. Era semplicemente il dormire con una un’amica. Vivere a stretto contatto con un disabile ti permette di vivere una specie di simbiosi. Anche se apparentemente può sembrare che un disabile non ti può dare niente, entrandoci in relazione ti rendi conto che ognuno ha bisogno dell’altro. E’ un esperienza incredibile che va oltre la preghiera.
di Maria Napolitano